Cure personalizzate per una terapia etica
3 Maggio 2018
Curare e prendersi cura
Capita spesso che il rapporto tra studio dentistico e paziente, e più in generale tra medico e paziente, venga ridotto alla sola dimensione prestazionale e tecnica. In questi casi lo studio e gli operatori coinvolti vengono visti come semplici prestatori di un servizio e i pazienti come clienti. Eppure una visione di questo tipo non fa che impoverire dinamiche molto più complesse e importanti, anche ai fini della terapia.
Noi di Faggian Clinic sappiamo quanto il rapporto con il paziente sia importante, sia dal punto di vista della correttezza e del servizio offerto, sia sul piano umano, morale e relazionale. Per questo siamo orgogliosi di riportare un fondamentale intervento intitolato Cure personalizzate per una terapia etica, tenuto da Sandro Spinsanti in occasione del XX Congresso Nazionale della Società Italiana di Parodontologia e Implantologia.
Cure personalizzate per una terapia etica
Un contesto che ci aiuta ad avvicinarci in maniera positiva alla richiesta di “personalizzazione” delle cure è quello in cui il suo contrario, ovvero la spersonalizzazione, non può essere imputata alla “disumanizzazione” degli operatori della cura, ma è resa necessaria dal contesto. E’ ciò che avviene in situazioni nelle quali, per scarsità di mezzi o per scelta, si privilegia il curare rispetto al prendersi cura.
Una semplificazione concreta è fornita dal libro Utopie sanitarie (Feltrinelli, 2002), che ha come sottotitolo esplicito: “Umanità e disumanità della medicina”. Il libro, curato da Rony Brauman, raccoglie diversi saggi redatti da sanitari che lavorano all’organizzazione “Medici senza frontiere”, di cui Brauman è stato presidente dal 1982 al 1994. Sappiamo che questi medici si trovano in prima linea in paesi nei quali la cura ha il carattere dell’emergenza e le condizioni di bisogno sono estreme.
In questo libro a più voci, dedicato ad analizzare i presupposti, le convinzioni e i metodi della loro azione, non c’è ombra di compiacimento. Al contrario: i medici coinvolti, riflettendo sugli interventi che avvengono in condizioni di penuria, denunciano il carattere di freddo calcolo che talvolta la loro azione è costretta ad assumere.
Devono scegliere tra chi curare e chi trascurare, scoprendo anche sorprendenti diversità culturali: in alcuni paesi, in situazione di carestia, sono i vecchi, in quanto garanti della coesione sociale, a dover ricevere per primi gli aiuti alimentari, e non i bambini, “gruppo debole”, che noi tenderemmo a privilegiare. Per gli organismi umanitari internazionali la priorità va data a evitare i decessi dei bambini, che ci sembrano più ingiusti e intollerabili, mentre in contesti culturali di sopravvivenza la scala delle priorità è un’altra.
Quell’ineffabile “altro” di Tiziano Terzani
Oltre a chi, i medici sono costretti a scegliere anche il come delle cure che erogano. I Medici senza frontiere sono i primi a denunciare che le loro azioni sono spesso costrette a essere “disumane”, perché assumono lo stesso carattere di “ingegneria” che siamo pronti a denunciare nella pratica medica a carattere più tecnologico. Tiziano Terzani, ad esempio, in Un altro giro di giostra (Longanesi, 2004) punzecchia i medici dell’ospedale oncologico di New York dai quali è in cura chiamandoli “gli aggiustatori”. Considerano, infatti, solo il problema clinico, al quale cercano di porre rimedio col meglio delle loro possibilità, ma non la persona malata:
“I miei medici tenevano conto esclusivamente dei fatti e non di quell’ineffabile “altro” che poteva nascondersi dietro i fatti, così come i cosiddetti “fatti” apparivano loro. Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri ed emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere di conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!”
Umanizzare la medicina
Paradossalmente, questa è la stessa accusa che i Medici senza frontiere rivolgono alla propria azione: lavorando in condizioni di estrema penuria, sono costretti a cadere negli stessi difetti criticabili nella medicina più scientifica. Per quanto “umanitaria” nelle motivazioni individuali di coloro che la praticano, anche la loro medicina diventa “disumana”, perché le condizioni in cui si svolge il loro lavoro li costringono a sacrificare quelle dimensioni della cura che qualsiasi malato considera essenziali. Indipendentemente dalla qualità degli affetti e delle relazioni che si instaurano, la medicina può essere oggettivamente disumana, se diventa, per necessità o per scelta, una specie di ingegneria applicata.
L’orizzonte in cui si collocano le considerazioni proposte da Medici senza frontiere non è quello delle intenzioni soggettive degli operatori e del loro impegno umano. Invitano a considerare il contesto. Scopriamo così che la medicina, nei contesti opposti dell’estrema indigenza e della massima opulenza, può essere ugualmente disumana.
Mentre l’auspicio dell’“umanizzazione” della medicina fa riferimento agli operatori – e implica indirettamente l’accusa rivolta loro di mancanza di dedizione e di motivazione – le analisi che si concentrano sulla disumanità della medicina prescindono dal vissuto degli operatori. Non equivalgono a un invito a “moralizzare” medici e infermieri, ma a un progetto rivolto a correggere la concezione stessa della medicina. Le differenze sono di grande peso: nel primo caso la terapia per la disumanità ha carattere predicatorio, nel secondo implica invece il correttivo delle medical humanities.
Dottor House: un modello mistificatorio
Una certa insofferenza nei confronti delle esortazioni moralistiche a favore del buon rapporto, senza tenere nel debito modo la qualità del servizio offerto, è comprensibile. La forte enfasi nel curare, a discapito del prendersi cura, ha fatto la fortuna della serie televisiva che ha il dottor House come protagonista. Questo medico impersona la scelta di puntare sui risultati, facendo economia non solo dei buoni sentimenti e dell’attenzione alla persona, ma provocatoriamente anche delle buone maniere. La giustificazione di questo stile si fa forte della presunzione che, tra un medico che ti guarisce trattandoti male e uno che ti faccia morire tenendoti affettuosamente la mano, tutti preferirebbero il primo. Ma quando a un dottor House di un ospedale metropolitano si attribuiscono scelte volontarie per comportamenti disumani che Medici di frontiera sono obbligati ad assumere si fa un’operazione mistificatoria (a meno che non sia una strategia di puro intrattenimento, centrato sul falso dilemma: “Preferisci un medico che ti fa morire tenendoti amorevolmente la mano, o uno che ti guarisce trattandoti male?”).
Le medical humanities non hanno come obiettivo di contrapporre il curare e il prendersi cura, la qualità relazionale e l’efficacia dei trattamenti, bensì la loro integrazione. Le humanities in questo contesto sono un sinonimo della “centralità del paziente”, o piuttosto della centralità della relazione nel processo di cura, nonché dell’importanza della comunicazione tra chi eroga le cure e chi le riceve.
Sandro Spinsanti
Laureato in teologia (specializzazione in teologia morale; interessi in ecumenismo) e in psicologia (con formazione psicoterapeutica in Analisi Transazionale e terapia della Gestalt). Ha insegnato etica medica nella Facoltà di medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e bioetica nell’Università di Firenze.
Tra gli incarichi ricoperti: direttore del Dipartimento di scienze umane dell’ospedale Fatebenefratelli all’Isola Tiberina (Roma) e del Centro Internazionale Studi Famiglia (Milano). È stato componente di commissioni ministeriali, del Comitato Nazionale per la Bioetica e ha presieduto comitati etici per la ricerca (Bergamo, Modena, Reggio Emilia, Rovigo).
Fondatore e direttore dell’Istituto Giano per le Medical Humanities e il Management in sanità, che ha promosso corsi di formazione per professionisti sanitari in bioetica, Medical Humanities e gestione manageriale. Il suo contribuito alla riflessione sulla nuova sanità si è espresso nella partecipazione a convegni, corsi di formazione e iniziative culturali.
Ha fondato e diretto la rivista di Medical Humanities L’Arco di Giano (1993-2000) e successivamente Janus. Medicina: cultura, culture (2001-2012). Ha diretto le collane editoriali Psicologia/Strumenti, Cittadella Editrice, Assisi e La piena salute, Città Nuova Editrice, Roma. Ha pubblicato volumi, saggi e articoli divulgativi su periodici e riviste.